Si fa un gran parlare di cambiamento, eppure, c’è un dettaglio che spesso sfugge: il cambiamento può assumere tante forme e ogni forma implica un qualche livello di difficoltà. C’è il cambiamento più sottile, quasi impercettibile, che accade in ogni singolo momento...
Gestisci un team? Bene, oggi voglio farti una domanda: quanto tempo trascorri a fare monologhi sul come si fanno o non si fanno le cose? Parecchio? Ti svelo un segreto: i leader più capaci ed efficaci non sono quelli che dedicano il loro tempo a fare lunghi monologhi o a dare infinite istruzioni sul come portare a termine i compiti di ogni componente del team.
Nell’articolo precedente ti ho parlato di ciò che ostacola la comunicazione efficace in azienda, in particolare ho posto l’attenzione su due aspetti: molto spesso è più importante portare a termine un compito piuttosto che costruire una relazione professionale. Dire vale più che domandare.
Qualche tempo fa mentre portavo avanti i miei studi sulla leadership e le nuove sfide del prossimo decennio, ho letto una frase che mi ha colpito molto… tanto per la sua semplicità quanto per la sua veridicità.
Tra le motivazioni che più di sovente spingono le persone a rivolgersi a un coach c’è quella del cambiare lavoro, spesso seguita o affiancata dal desiderio di cambiare vita.
Oggi partiamo da qui: a che cosa assomiglia la tua vita? Un terzo delle ore che compongono la giornata le trascorriamo lavorando, se poi pensiamo al numero dei giorni in rapporto all’anno, la proporzione è ancor più incisiva.
Quante volte avete sentito questa domanda o voi stessi l’avete posta? Immagino parecchie… ma diciamolo subito, la vera verità è che questa domanda oltre a essere sbagliata è pericolosa e fuorviante.
Lo so, il verbo accettare dopo oltre due anni da dimenticare non è certo il più in voga… e se c’è qualcosa di cui ne abbiamo senza dubbio fin sopra i capelli è proprio accettare cose, situazioni e/o persone che non ci piacciono.
Partiamo da una verità assai scomoda: gli stati d’animo che vivi non sono emozioni che ti capita di provare all’improvviso: ma sono bensì reazioni che tu scegli di avere. Ti avevo avvisato, la provocazione di oggi è forte, e lo è perché di fatto la maggior parte di noi è stata cresciuta in una cultura che insegna che non siamo noi i responsabili, ma bensì gli altri o gli eventi esterni...
Quante volte avete attribuito la causa dei vostri errori al vostro carattere o alla vostra natura? Posto che dare la colpa dei propri errori alla propria natura né cambia la natura degli errori stessi, né aiuta a risolvere la situazione, penso che sia necessario fare ordine o si rischia di oscillare tra due poli pericolosi...
Nel mio ultimo articolo ti ho parlato di fragilità e della necessità di essere in grado di prendere atto delle emozioni invece di riversarle sugli altri. E per quanto ci possa sembrare impossibile negare le emozioni, la cosa accade più spesso di quanto pensiamo, ma vi dirò di più…
Ci sono giorni in cui gli eventi si susseguono in modo del tutto naturale e poi bam all’improvviso (?!?) succede qualcosa per un motivo o per un altro in un istante ti ritrovi a terra. Che sia per via di una delusione, perché hai commesso un errore o ti si è spezzato il cuore, non importa…
Andiamo subito dritti al punto: i conflitti per la maggior parte delle persone sono fonte di disagio, mal di pancia e giornate da dimenticare. Eppure, proprio coloro che cercano in tutti i modi di evitarli si ritrovano a viverne sempre di più. Un po’ come una strana legge del contrappasso.
Stress: il capro espiatorio per tutte le stagioni. Ogni volta che le cose non vanno per il meglio o non si trova una causa a un mal funzionamento, o a un problema di salute, ci sentiamo dire che è tutto dovuto allo stress. O meglio all’incapacità di tollerarlo al meglio.
Quante volte abbiamo sentito dire la frase: “ho/abbiamo perso la motivazione”! Come se fosse una chiave o un oggetto difficile da custodire e che può scivolare fuori dalle tasche con estrema facilità.
Voglio raccontarvi una storia. Conoscete il miracolo delle mangrovie? “Il professor Smith stava scrutando un isolotto di mangrovie quando, all’improvviso, l’intera chioma dell’agglomerato brillò e poi tutto si fece buio. Poco dopo, come spesso accade, il lampo apparve di nuovo...
Non si sceglie consapevolmente di essere perfezionisti, si scivola in questa gabbia giorno dopo giorno, un passo per volta, ma con la consapevolezza se ne esce. Le derive di questa gabbia sono innumerevoli, una di queste è la sindrome dell’impostore
Siamo nella fase più calda dell’anno e naturalmente non parlo di temperature (per quanto facciano la loro parte) bensì della fase dell’anno in cui buona parte di noi si trova in piena corsa per consegnare o chiudere progetti, prima delle tante agognate ferie estive. Una fase che implica fatica, ma anche tensioni che sfociano facilmente in conflitti, stanchezza e in alcuni casi anche frustrazione.
Saper lavorare in gruppo è una vera e propria skill sempre più indispensabile e richiesta nel mondo del lavoro, eppure non è una materia scolastica… bensì viene delegata ad altri ambiti che per altro non si è tenuti a frequentare.
Avete presente come si muove un sonnambulo? Si aggira in uno spazio e agisce senza sapere quello che dice e quello che fa, e al risveglio non ne ha neanche memoria. Ecco quando nella nostra vita non mettiamo sufficiente consapevolezza non siamo molto diversi da un sonnambulo.
“Il successo è una realizzazione progressiva di un obiettivo valido o di un ideale.” (Earl Nightingale) Una definizione che trovo molto efficace e di cui vi ho parlato qualche tempo fa in un altro articolo in cui affrontavo l’eterna dicotomia che spesso mette in difficoltà le persone: essere felici o avere successo?
Qualche mese fa ho iniziato un percorso di coaching con una persona che ha esordito così: “Sono un caso disperato, sono una donna adulta – eppure – in cuor mio mi sento costantemente come un’adolescente. Perché non so più chi sono e che cosa devo fare della mia vita!”.
Torno a parlare di leadership un po’ perché sono insistente e un po’ perché stavolta lo spunto è arrivato, per caso, da un articolo pubblicato sulla Gazzetta dello Sport a inizio gennaio e letto solo qualche giorno fa. Sto parlando di una lunga intervista concessa da Papa Francesco a proposito di sport.
Conosci la storia dei cani allo specchio? Una donna vide due cani che in momenti diversi entravano nella medesima stanza e, dopo poco tempo ne uscivano.
Dislaimer: se pensi di non essere un leader e che pertanto questo articolo non ti riguarda. Beh, mettiti comodo e scoprirai a breve perché non è così. Ci tengo a iniziare questo articolo con una riflessione: esattamente come mamma azienda non è tenuta a prendersi cura dei suoi piccoli, un leader non è un soggetto che da solo guida un gruppo mentre tutti gli altri lo seguono passivamente.
Efficacia, efficienza e produttività: tre termini che nei curricula non mancano mai e che spesso le persone utilizzano con estrema leggerezza, come fossero sinonimi, soprattutto quando parlano di lavoro e obiettivi da raggiungere.
Quante volte ti è capitato di cercare una scusa per saltare o spostare un impegno e hai usato il lavoro come alibi? “Scusa, ho avuto un imprevisto al lavoro, farò tardi”. “Non c’è nulla che non va, solo pensieri per il lavoro”.
Settembre è appena iniziato eppure il fermento per la ripartenza si sente già da diverse settimane. Tutti pronti a rimettersi in gioco… un po’ perché è normale che accada con la ripresa delle attività dopo le vacanze estive, un po’ perché si percepiscono la paura per il futuro e la necessità di recuperare il tempo perduto nei mesi passati per via della crisi sanitaria ed economica.
(disclaimer: questo post sulla “sindrome del lunedì” non offre una spalla su cui piangere e neanche indicazioni sulla routine del mattino). Quella del lunedì è una “sindrome” estremamente diffusa. Colpisce indistintamente donne e uomini, a prescindere dall’età e dal tipo di lavoro svolto.
Non ci sono più certezze. Vero. Là fuori è tutto diverso da come ce l’hanno raccontato. Vero. Hanno tradito tutte le promesse. Vero. Per i trentenni e i quarantenni di oggi la vita è molto più incerta. Vero.
Nell’articolo della scorsa settimana ho affrontato il tema dei colleghi difficili con i quali andare d’accordo, passando in rassegna gli “archetipi” più complessi siamo giunti poi a riflettere sul nostro grado di responsabilità all’interno delle dinamiche nelle quali siamo quotidianamente coinvolti.
I conflitti sul lavoro sono i più comuni e tra i più snervanti, sicuramente perché il lavoro è il luogo (fisico o virtuale) nel quale passiamo più tempo e cosa ancor più delicata molto spesso non scegliamo noi persone, capi e clienti con i quali interfacciarci, soprattutto se siamo lavoratori dipendenti.
Nel mio ultimo post ho parlato di work-life balance e work-life integration, e del fatto che prima di decidere quale sia la soluzione migliore per te e quindi il tuo obiettivo in termini di organizzazione professionale è necessario fermarti e capire chi sei, che cosa vuoi e quali sono i tuoi bisogni.
Chi più chi meno ci siamo trovati tutti in qualche momento della nostra vita lavorativa a fare i conti con le ingerenze degli impegni professionali a discapito di quelli privati. Se poi pensiamo all’ultimo periodo, fatto per molti di smart working...
Oggi faccio una cosa diversa, non amo particolarmente le premesse ma inizierò questo post con ben due premesse, brevi ma doverose per spiegare che cosa c’entra il Covid-19 con la leadership e la Fase 2.
Qualche tempo fa durante una sessione di coaching un giovane e brillante professionista mi raccontava della sua frustrazione legata alla costante sensazione di vivere in bilico tra il successo professionale e la sua felicità. Si sentiva condannato a perdere pezzi di felicità via via che il successo professionale pervadeva la sua vita.
Saper lavorare in team è contestualmente una delle competenze che: a) viene maggiormente richiesta dalle aziende; b) spesso le persone mettono nel cv, senza indagarne a fondo il significato; c) rappresenta la buccia di banana sulla quale è facile scivolare, soprattutto in questo momento.
“Quando gli uomini smettono di dire cose belle, smettono anche di pensarle”. Oggi voglio scomodare Oscar Wilde per parlare di neuroscienze, leadership ed elogi.
Sabotarsi è una delle cose che alle persone riesce meglio in assoluto, te ne ho parlato qualche tempo fa anche in questo post. Ci si perde mettendo il focus su cose che non sono realmente importanti ma che hanno comunque la spiccata capacità di risucchiare le nostre energie. Di che cosa si tratta? Vediamone alcune da vicino.
Qualche tempo fa interrogandomi su come negli anni sia cambiato il mio modo di studiare e di memorizzare concetti, sono giunta a una conclusione: il mio cervello ha capito molto prima di me una lezione basilare. Alcune “funzioni” - come per esempio ricordare a memoria ogni dettaglio - non erano poi così necessarie e ha scelto di “rallentarle” a favore di altre.
Il quantitativo di capi che non si possono definire leader è numericamente elevato. E proprio pensando a tutti voi che vivete rapporti professionali complessi che ho pensato di proporre un gioco. Una domanda e un feedback per il tuo capo tremendo. Una risposta per il tuo team che ti teme.
Questa settimana scompiglio le carte e dopo tante riflessioni sul dire di no, l’assertività e il mettere confini… ti dico che è arrivato il momento di imparare a dire di sì. Sì alle occasioni che ti mettono in discussione. Sì alle situazioni fuori dalla tua comfort zone. Sì alle sfide che ti bussano alla porta.
Il tema delle relazioni in ambito professionale è spesso molto spinoso. Espressioni come: “devo stare attento/a a quello che dico”, “se faccio una domanda in più, lui/lei si irrita”, “cammino sulle uova” e via dicendo… sono più comuni di quel che pensiamo. Proprio intorno a quest’argomento si consumano gastriti e varie forme di somatizzazione dello stress.
Eccoci alla seconda puntata sull’assertività. Ilenia, in questo articolo dello stage door blog, ha scritto cosa è l’assertività e come è possibile allenare questa competenza. Ha anche spiegato efficacemente perché l’assertività è un tema di Vera Verità e di come competenze e metodologie diverse siano utili per affrontare e rinforzare la nostra capacità di esprimere le nostre idee e le nostre esigenze.
“Non so come sono finita/o a fare questo lavoro… e a vivere questa vita!”. Tante telefonate, mail e racconti di persone che decidono di iniziare un percorso di coaching con me cominciano così… per proseguire con un elenco di fatti e situazioni rispetto ai quali si trovano in balia o, ancor peggio, in vero e proprio ostaggio. Ogni storia è diversa ma il denominatore comune è molto spesso lo stesso e oscilla tra due poli e, forse, riguarda anche te: la vita con i suoi eventi ti ha travolto e ha fatto saltare i tuoi piani o non hai mai avuto un vero e proprio progetto da portare avanti con perseveranza.
Sui Millennial abbiamo letto e sentito di tutto, la generazione dei nativi digitali viene spesso osservata e analizzata quasi fosse un nuovo fenomeno naturale che necessita di essere passato ai raggi x per capire come gestirlo. A tratti spaventa, a tratti stupisce, a tratti causa sgomento, a tratti provoca una certa punta di invidia per la velocità e la sfrontatezza con la quale i Millennial affrontano il mondo, soprattutto quello del lavoro.
Qualche tempo fa parlando di conflitti scrivevo che ogni qual volta ne affrontiamo uno ci ritroviamo a fare i conti con due questioni: la situazione specifica che ha fatto scoppiare la discussione e le emozioni annesse, e su questi aspetti mi focalizzerò anche per parlare di fallimento. Una parola che detestiamo pronunciare e davanti alla quale tremiamo al solo pensiero.
Di recente mi è capitato uno strano sincronismo dal quale sono nate le considerazioni che mi hanno dato l’idea per questo articolo. La mattina ho lavorato a un progetto di comunicazione su tematiche riguardanti l’Intelligenza Artificiale, il pomeriggio mia madre mi ha raccontato un episodio molto tenero sul mio nipotino quattrenne e la sera, durante una conversazione
Vivere di contraddizioni è un arricchimento e uno stimolo costante nella ricerca dei perché, tanto quanto è un’immensa fatica. Qualche giorno fa dopo un anno esatto in cui non mi capitava mi sono ritrovata a lavorare esclusivamente da casa, senza uscire, senza dover di fatto rendere conto a qualcuno e senza avere appuntamenti in agenda.
Cara Vera Verità, torno a scrivere sull’antiblog dopo alcuni mesi di pausa. Torno a scrivere mentre nella stanza tre uomini si accaniscono rompendo il pavimento e un muro alla ricerca di una perdita. Insomma sono in mezzo al cantiere con i calcinacci, la polvere e il dubbio di quale sarà il risultato al termine dei lavori.
La vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia. (M. Gandhi) Una frase che avrai sicuramente letto tantissime volte in diverse occasioni. Ti sei chiesto quali leve attiva in te? Che cosa pensi esattamente quando la leggi? Sarà che questo 2019 è stato un anno molto complesso, sarà che si sono susseguiti eventi contrastanti e specie negli ultimi mesi ho sperimentato, mio malgrado, l’impotenza dinnanzi a situazioni più grandi di me, dinnanzi alle rigidità altrui, dinnanzi alla scorrettezza, ai silenzi e agli imbrogli…
Spesso quando in sessione mi ritrovo a lavorare sui temi di assertività mi imbatto in due obiezioni che suonano più o meno così: ‘Aumentare la mia assertività mi renderebbe più aggressiva/o e io non voglio cambiare per colpa degli altri’. ‘Se divento più assertivo/a vivrò più conflitti…’
Devo rimettermi in forma, anche se proprio non mi interessa, ma a lui/lei farebbe piacere. Non ho voglia ma stasera devo uscire con Diletta e mi toccherà ascoltare tutte le sue lamentele. Dovrei smettere di cambiare idea e mettermi in situazioni complicate. Dovrei dirgli in faccia tutto quello che penso! Non saprei. Devo trovare una risposta, non posso dire non lo so, chissà che cosa penserà di me! Devo… Dovrei… Avrei dovuto…
Oggi ho deciso di toccare un tasto dolente: la capacità di chiedere aiuto. E’ un argomento al quale tengo molto, sia perché mi capita spesso di lavorarci in sessione, sia perché intorno a questo tema si creano infiniti malintesi e, lasciatemelo dire…, si sprecano anche un sacco di energie e di occasioni. La faccio breve. Ti racconto una storia.
Non sopporti i conflitti ma ti trovi costantemente di fronte a persone che ti ci trascinano? E quando riesci a evitarli ti senti in scacco e in totale balia del tuo interlocutore? Bene, è arrivato il momento di “scambiare il ruolo dell’ospite con quello del padrone di casa”. Questa espressione ha un’origine lontana, è una strategia di resistenza cinese che punta a vincere senza combattere e che offre spunti di riflessioni interessanti.
Non ho intenzione di girarci intorno, l’avversario più ostico, il più temibile e il più difficile da battere con cui ti troverai vis a vis, sei tu. Tu che ti boicotti. Tu che ti racconti un sacco di scuse. Tu che ti lamenti e non agisci. Tu che per ogni soluzione trovi mille “ma” e mille “però”. Tu che ti vedi coinvolta/o in un’eterna battaglia e che cercando disperatamente di schivare energia negativa la generi.
Quanto tempo dedichi e quanti sforzi fai per riuscire a ottenere l’approvazione altrui? Tanti? Allora, prenditi qualche minuto e leggi questo post, perché se accostare due concetti come approvazione e desiderio ci può stare..., accostare, invece, approvazione e bisogno… è assai rischioso.
Mandi una mail, scrivi un whatsapp, fai una telefonata… e dall’altra parte… Silenzi. O, nella migliore delle ipotesi, risposte vaghe: Ti faccio sapere. Ti aggiorno. A breve ti darò un riscontro. Ci sto lavorando. Aspetto anch’io una risposta. Non dipende da me. etc…
Se stai leggendo questo articolo perché mi segui regolarmente e stai anche pensando che: “…è settembre, l’anno nuovo è appena iniziato e ADESSO è il momento giusto per iniziare un percorso di coaching… perché chi ben comincia… bla bla bla…” allora chiudi immediatamente questo articolo e torna qui tra cinque settimane esatte, dopo che avrai ripreso i tuoi ritmi e i tuoi impegni di sempre. Allora, e solo allora, ne riparleremo.
Ho deciso di dedicare l’ultimo post prima della pausa estiva a un argomento scottante, scottante quasi quanto questa calda estate…: le aspettative. Siano esse positive e o negative, poco importa, quello che sappiamo con certezza è che ci intossicano e ci fanno vivere male.
Che cosa significa perdonare? Ti sei mai soffermata/o a riflettere sul significato di questa parola? Facciamolo insieme. Perdonare è una parola che deriva dal latino medievale ed è composta da PER, che sta per completamente, e DONARE, originatosi cambiando il prefisso di condonare. In sostanza perdonare significa: DONARE COMPLETAMENTE.
Calma. Respira. Calma. Non farti trascinare nel vortice. Respira. Isolati nel tuo mondo. Calma. Non fare il gioco dell’avversario… Respira.
Cara Vera Verità, questo mese mi hai proposto questa frase di Cioran: “Se voi avete il tono, avete tutto”. Di recente mi è stato riferito questo episodio: durante le prove di uno spettacolo di teatro amatoriale, un attore era alle prese con un difficile testo classico e il regista per aiutarlo gli ha suggerito di alzare il tono della voce.
A volte ci sono pensieri ed emozioni che non riesci proprio a tirare fuori e che si trasformano in un peso sul cuore. Cala una strana nebbia e le sbarre della tua gabbia immaginaria diventano più inespugnabili di una fortezza. Altre volte, invece, quello che complica le tue giornate è il costante sforzo di essere compreso, come se fossi imbrigliato in un sistema complesso intriso di malintesi.
È successo ancora… eri felice, o forse semplicemente avevi la sensazione che tutto filasse liscio, e poi in un istante arriva lei, una strana nebbia che ti avvolge all’improvviso e ti mette con le spalle al muro, ti fa sentire quasi in debito di ossigeno… Non capisci che cosa stia accadendo, sai solo che ti ritrovi con le idee tanto chiare quanto confuse dalla volontà di chi hai intorno che ti trascina, senza se e senza ma, in un vortice fuori controllo…
Ciò che non puoi comunicare rovina la tua vita (R. Anthony). Oggi ho deciso di partire da qui: da ciò che non puoi o non vuoi, o semplicemente non riesci a comunicare… o forse neanche riesci a mettere a fuoco. Che si tratti di sentimenti, emozioni, decisioni, pensieri, parole, bisogni, desideri, confini, limiti o parti del tuo vissuto… in qualunque caso, non comunicando ti stai intossicando, boicottando o danneggiando.
Chi di voi segue da un po’ l’anti blog sa bene che una volta al mese c’è un appuntamento epistolare con Angela. Lo scambio da Vera Verità a Vera Verità. Ma questa volta sono io che scrivo prendendo spunto dal suo ultimo articolo sul successo. Concordo pienamente sul fatto che la realizzazione degli obiettivi nutre la soddisfazione e il senso di completezza costruisce la felicità e accresce l’autostima.
Cara Vera Verità, tu chiami e io rispondo! Lanci il guanto della sfida in forma di aforisma! E questa volta è come il canto delle sirene per Ulisse… il project manager risponde perché sa che la ragione della sua esistenza sta lì, nella necessità di condurre qualcuno da un punto di inizio a un punto di conclusione.
C’era una volta l’edonismo e c’è oggi un consumismo frenetico che ci porta a perseguire il benessere, il piacere e l’eterna giovinezza trascinandoci in un vortice fatto di frenesia e adrenalina… in cui la parola dolore non può essere contemplata. Chi soffre è uno sfigato.
Un pensiero si affaccia all’improvviso nella tua testa, inizia a rimbalzare tra tutti gli altri, ma ti accorgi immediatamente che è più forte degli altri, ha uno strano sapore, una strana forma… mette agitazione, cerchi di non soffermarti ma diventa sempre più grande. Se all’inizio lo visualizzavi come un insetto minuscolo e fastidioso… adesso ti accorgi che via via cresce fino a risucchiare tutte le tue energie e ti ritrovi a non fare più nulla concretamente ma a continuare ad alimentarlo…
“Quando gli elefanti fanno la lotta è l'erba che soffre” Cara Vera Verità, qual è l’insegnamento che possiamo trarre da questo proverbio africano? Il significato letterale è che nel confronto fra i grandi sono sempre gli inermi, i piccoli, i deboli a portare i carichi più pesanti e a subire le conseguenze di guerre in cui sono poco più che uno sfondo colorato.
Non c’è nulla di più naturale del cambiamento, è intrinseco alla natura e a ogni essere vivente, se non ci fosse cambiamento non ci sarebbe vita, eppure molte volte ci risulta difficile accettarlo. Ci provoca fitte di dolore, di paura, di preoccupazione, o talvolta di ansia e ci ritroviamo a innescare battaglie senza senso purché tale cambiamento non tocchi le nostre vite, purché non si infiltri nella nostra quotidianità sconquassando i piani.
“Devi essere il miglior amico di se stesso”. “Amati di più”. “Se non stai bene con te stesso, non puoi stare bene con gli altri”. Frasi che abbiamo sentito ripetere infinite volte al punto che nella nostra testa suonano spesso retoriche se non addirittura astratte, anche perché - diciamocelo… - spesso si finisce per far coincidere l’amore per se stessi con l’egoismo, come se l’egoismo fosse la cura di ogni problema.
“Un capo che vuole controllare e gestire tutto è come un allenatore che vuole giocare la partita”. (Simon Sinek) Caro Manager, ti senti un maratoneta affannato? Passi il tuo tempo a inseguire meeting, fissare call, mandare centinaia di e-mail, e per contro hai la sensazione che il tuo team se la prenda con comodo e non sia realmente sul pezzo, al punto che ti tocca scendere direttamente in campo e mettere le mani in pasta nell’operatività?
Basta una sola frazione di secondo e tutto cambia. In una sola frazione di secondo scende la goccia, l’ultima, quella che fa traboccare il vaso… E smuove tutto il substrato, poi nulla è più come prima. Io, tu, noi, nessuno è più come prima. Quello che ti circonda gli oggetti, i dettagli quelli sì invece, quelli restano immutati, lì immobili, come se la goccia non li avesse colpiti.
Quando e per quali motivi posso dire che ho raggiunto i livelli di un’efficace performance? Quali sono gli standard a cui puntare? Queste, cara Vera Verità, sono le domande che mi pongo oggi. Qualche anno fa avrei risposto senza esitazione “lavorare bene significa portare risultati”
Se cerchi il significato del termine accettare quella che troverai come prima descrizione è la seguente: “Acconsentire a ricevere o ad accogliere”. Se poi scorri il lemma e arrivi all’accezione riflessiva del verbo, troverai quest’altro significato: “Essere contenti di se stessi, pur nella consapevolezza dei propri limiti”. Vero. Ma aggiungerei due tasselli: accettarsi è la via per rispondere alla domanda “Chi sono?”
Di recente mi è capitato di lavorare con due persone dai profili professionali per certi aspetti vicini, per altri diametralmente distanti, ma non inconciliabili: un manager spesso irritato dai modi e dall’operato del proprio team e un dipendente frustrato per via delle dinamiche aziendali e del rapporto con il capo. E nel riflettere sull’apparente inconciliabilità dei punti di vista che crea e nutre questi circoli viziosi, ho trovato una via d’uscita in Seth Godin.
Buongiorno, Vera Verità In questo mese un po’ diverso dagli altri scriverò senza cogliere uno spunto da un tuo articolo. Vorrei parlare di collaborazione. Collaborazione? Forse il concetto è riduttivo. Parlerò di co-creazione
Quando è stata l’ultima volta in cui avresti voluto dire di no ma non ci sei riuscito? Forse è stato ieri quando avresti tanto voluto rifiutare un invito a cena, oppure lunedì quando il tuo capo ti ha bloccato in ufficio per un lavoro che avresti potuto benissimo fare il giorno dopo… o addirittura poco fa con quell’amica un po’ pesante ma che “poverina” si è lasciata con il fidanzato e ha bisogno di te, anche in orari bizzarri…
“Sei diventata incoerente!”. Questa critica da un certo punto in avanti della mia vita mi è stata rivolta parecchie volte e ammetto che a lungo ne ho sofferto… non tanto per la critica in sé, che ci può stare, ma perché non riuscivo a mettere nella giusta prospettiva il significato di quelle parole e di conseguenza il perché le persone, a volte, mi percepissero così.
Ogni volta che chiedo ai miei coachee di dare un volto e un nome ai famosi “altri” che popolano le loro vite e animano i loro racconti, difficilmente la lista si compone di figure positive. Gli altri sono i mostri cattivi, gli antagonisti principali delle nostre storie: i capi insopportabili, i colleghi egoisti e quelli non collaborativi, i parenti invadenti, i falsi amici e i partner che meritano di essere cestinati.
Secondo alcuni studiosi il linguaggio umano è nato per parlare degli altri, il che non fa che confermare l'importanza delle relazioni interpersonali e la necessità delle chiacchierare alle macchinette del caffè
Cara Vera Verità, il perfezionismo è un tema importante nelle nostre vite e in qualche modo siamo in tanti a esserne vittima e poiché siamo connessi gli uni agli altri in una rete di rapporti, collaborazioni e relazioni dobbiamo occuparci non solo delle nostre personali manifestazioni di perfezionismo ma anche di quelle degli altri. Ho incontrato il perfezionismo altrui molto prima di misurarmi con il mio!
Per liberarsi dal perfezionismo non è sufficiente cambiare modo di pensare. Certo è un passo fondamentale ma poi tocca avere il coraggio di sporcarsi le mani, di agire concretamente… e questo richiede fatica e sacrificio. Oggi entriamo nel vivo della questione. Tenetevi forte, perché la prima strategia per sconfiggere i comportamenti perfezionistici è l’esposizione.
Ricordo la prima e unica volta che al liceo presi un 2. Versione di latino, fu una tragedia immane. Primo non sapevo spiegarmi come fosse potuto succedere, A ME, e poi mi vedevo finita. Arrivai a casa in lacrime, mia madre tentò tutto pomeriggio di consolarmi inutilmente… la sera a tavola mio padre stappò un’ottima bottiglia di vino e mi disse: “Festeggiamo, ho una figlia normale!”
“Il perfezionismo non ha niente a che vedere con ottenere dei sani risultati e crescere. È la convinzione che se viviamo in modo perfetto, abbiamo un aspetto perfetto e ci comportiamo in modo perfetto, possiamo evitare la vergogna, il senso di colpa e il giudizio altrui. È uno scudo di venti tonnellate che ci trasciniamo dietro. Non significa migliorare, quanto guadagnarsi approvazione e accettazione”. (Lawrence J. Cohen)
La scorsa settimana ti ho parlato di problemi e di come siamo particolarmente abili nell’alimentarli. Fortuna nostra esiste anche l’altra faccia della medaglia: esattamente come creiamo problemi, possiamo costruire soluzioni. Ho scelto di proposito parole che implicano uno scatto in avanti: non stiamo risolvendo un problema, ma stiamo costruendo qualcosa. Stiamo uscendo dalla casella A per entrare nella casella B.
Quante volte hai sentito, o hai pronunciato, la frase: “Ho troppi problemi da risolvere!”. A parte le situazioni limite, e non controllabili, i problemi non sono gocce di pioggia che piovono dal cielo! Bensì richiedono la tuaa collaborazione e la tua partecipazione attiva nella loro stessa creazione. Un po’ come accade quando metti nuovi ceppi nel camino per alimentare il fuoco e solo quando il caldo diventa insopportabile e il fumo denso cerchi di cambiare la situazione.
Sono sempre stata una “maniaca” del controllo e il lavoro che ho svolto per oltre quindici anni in parte nutriva questo bisogno e in parte alimentava questa schiavitù. “Pianifica, organizza, verifica e ri-verifica”: era il mio mantra. Ricordo il periodo in cui il mio socio mi chiamava post-it, memorizzavo ogni dettaglio, anche le sue deadline e gli mandavo email con oggetto: memo.
Vera Verità, voglio scrivere anche io di lamentela! Eccomi! Quando sento questa parola lamentela penso sempre a Pulcinella che, una mano sulla fronte e l’altra che si agita nell’aria, saltella sul proscenio urlando “Me misero, me infelice!”.
Se gli occhi sono lo specchio dell'anima, il linguaggio è lo specchio della mente. Ma perché parliamo, come lo facciamo, quali processi innesca la parola, come utilizzare al meglio questa facoltà, unica, di noi umani? Vediamolo insieme. Immaginate di non conoscere il nome del sale. Cosa fareste? Mangereste scipito oppure, una volta a tavola, lo indichereste col dito. Poco male.
Qualche settimana fa, a proposito di lamentele e del come spezzare il circolo vizioso, ho introdotto come primo passo l’ascolto delle parole che pronunciamo... e l’ho fatto con questa frase: “La mia regola è usare soltanto parole che migliorino il silenzio”. (Eduardo Galeano). Penso che Abracadabra abbia a che fare con questo. L’origine di questa parola (in greco antico ἀβρακαδάβρα) è un po’ controversa, tra le varie ipotesi ho scelto quella che riconduce all’aramaico Avrah KaDabra che significa: “Io creerò come parlo”.
Di quanto le lamentele siano tossiche e di come fare per cambiare questa malsana abitudine ne abbiamo già parlato la scorsa settimana qui. In questi giorni mi avete scritto in tanti per raccontarmi il vostro rapporto con le lamentele e di quanto sia un’abitudine difficile da cambiare. Le lamentele sono pericolose: imbrigliano come le ragnatele e ci portano dritti dritti tra le “fauci” dell’autocommiserazione.
“La maturità è quando smetti di lamentarti e cercare scuse, e inizi a fare cambiamenti”. (Roy T. Bennett) Così recita l’aforisma che ti ho proposto l’altro ieri e da qui parte la mia riflessione di questa settimana. Abbiamo già parlato delle scuse qui e qui ora voglio dedicarmi allo sport nazionale maggiormente diffuso. No, non sto parlando del calcio… bensì della lamentela.
Cara Vera Verità, queste sono le parole di chi sta in trincea e mi scuso fin da subito se da questa prospettiva dovrò alzare il tono tanto è il rumore dei colpi di mortaio. Da alcuni giorni rifletto sul significato di leadership e sulla sua declinazione nel mondo aziendale.
Spinte contrastanti. Emozioni contrastanti. Scenari contrastanti. Sono solo alcune delle dicotomie all’interno delle quali ci muoviamo e che spesso ci tolgono il fiato. Di che cosa sto parlando? Della combinazione potente che s’innesca tra la spinta alla standardizzazione, che ci concede sicurezza, e la ricerca di identità, che ci regala libertà, ebrezza, ma anche paura.
Chi sono i leader senza poltrona? Sono tutti coloro che hanno capito che per essere un vero leader non è necessario avere una posizione o un ruolo di potere. Eh sì, cari miei, abbiamo tutti una responsabilità e prima lo capiamo è meglio è, soprattutto per la nostra qualità di vita.
“Le città sono diventate discariche di problemi generati a livello globale. Gli abitanti delle città e i rappresentanti da loro eletti si sono ritrovati con un compito per cui non sono affatto all’altezza: quello di trovare soluzioni locali a contraddizioni globali”. Così sentenzia Bauman in “Città di paure. Città di Speranze”.
Ricordo quel giorno come fosse ieri. Frequentavo la quarta liceo scientifico e dopo un paio di settimane dall’inizio della scuola la prof di latino aveva già fissato una versione di verifica su un argomento che stava mettendo l’intera classe in crisi. Eravamo solo all’inizio dell’anno scolastico e abbiamo preso il toro per le corna e chiesto di fare insieme più esercizio e posticipare la prova.
Cara Ilenia, Nel tuo post sui concetti di protezione e coraggio intesi come valori fondanti della figura del leader, hai fatto riferimento alla famiglia. Il vocabolario italiano declina alcune definizioni del termine famiglia. Tralascio volutamente quelle che fanno riferimento diretto ai vincoli di sangue e di discendenza e trovo:
No, non rispondere di getto. E no, la risposta non è così scontata. Se ti stai chiedendo perché in un’unica domanda ho infilato due concetti così potenti - protezione e coraggio - è perché credo fortemente che le due cose siano strettamente connesse e siano due ingredienti che facciano la differenza nell’economia del buon funzionamento di un team.
Tornare sui banchi di scuola o “sulle scrivanie degli uffici” spesso equivale a ricominciare a fare i conti con le paure di sempre. Una fra tutte quella del giudizio degli altri. La bestia nera che toglie serenità e con la quale fare i conti non è mai piacevole. Una bestia che possiamo affrontare e trasformare in docile agnellino solo attraverso un percorso di consapevolezza
Ormai lo sapete questo è l’anti-blog (se, invece non lo sapete, qui trovate la sua storia), come tale non vive di un piano editoriale fisso, qui l’unica regola è che si pubblica di mercoledì, per il resto è pura condivisione di studio, di letture, di tecniche efficaci, di scoperte, di esperienze e anche di emozioni che nascono sul momento. D’altra parte la costruzione della propria identità è un viaggio infinito, talvolta complesso, ma sempre emozionante. Oggi voglio condividere con voi una nuova tappa.
Proprio ieri in spiaggia ho assistito a due discussioni per via del phubbing, una coppia sugli scogli e una al bar durante l’ora dell’aperitivo. Che cos’è il phubbing? Se non l’avete praticato l’avrete subito o magari entrambe le cose. Va bene, smetto di tergiversare e arrivo al punto.
C’è un luogo che ho amato a lungo. Lo stesso luogo che ho anche detestato a lungo e che solo di recente ho ricominciato ad amare. Si tratta della mia amata stanza buia, oggi dal soffitto bianco. Uno spazio immaginario, un angolo della mia mente nel quale finivo per isolarmi ogni volta che avevo bisogno di ricaricare le batterie.
Cara Ilenia, Eccoci qui! Ancora noi! Oggi vorrei fare alcune riflessioni sul tuo articolo “Le frasi che non si devono dire (in nessun caso!)”. Scrivi delle frasi che è bene evitare perché non portano alcun beneficio alla relazione e al tuo interlocutore. Ma come possiamo disinnescare il potere distruttivo di queste frasi quando vengono rivolte a noi? Come possiamo attivare l’antidoto? Evitare la trappola in cui nonostante la nostra preparazione e la nostra forza rischiamo di cadere?
Chi ha fatto un percorso con me lo sa molto bene: dopo “gli altri”, le “scuse” sono un tema sul quale insisto parecchio. Che ci piaccia o no, ce ne “raccontiamo” un sacco, ogni giorno, e lo facciamo per svariate ragioni, una fra tutte, le scuse ci forniscono un alibi perfetto per evitare di innescare un cambiamento. Perché per quanto il cambiamento ci sembri figo, di fatto il cambiamento non è per tutti.
Ho avuto a lungo un problema: non ero capace di smettere di lavorare o studiare quando ero stanca. Vivevo convinta che fosse “giusto”, anzi normale, smettere di lavorare o studiare, solo quando il lavoro fosse stato ultimato. E portavo questo concetto alle estreme conseguenze: facevo notte davanti a un progetto da consegnare, lavoravo nei weekend e saltavo regolarmente i pasti… il tutto senza neanche rendermene conto.
Qualche tempo fa un’amica ha scritto questo post: “E dopo La Casa di Carta cosa mai si potrà guardare?”. Ed ecco che il magico potere del passa parola si è innescato, ho cercato di cosa si trattasse e mi sono lasciata stregare anch’io da questa serie TV.
Cara Ilenia, Eccoci qui! Ancora noi! Per continuare su tastiera quel flusso di scambi continui di idee, progetti e scemenze (anche quelle!) che è un fiume in piena ormai da parecchio tempo. Ci siamo conosciute al master per Coach e del primo giorno ricordo la tua presentazione, il tuo lavoro, la voglia di cambiamento, il tono scanzonato e risolto
Trattare con gli altri non è facile e spesso cadiamo in trappole dannose per noi e le nostre relazioni, personali e professionali. Di cosa sto parlando? Semplicemente di parole e frasi che innescano conflitti e scontri con coloro che abbiamo intorno e lo fanno a prescindere dalle buone intenzioni che avevamo quando le abbiamo pronunciate. Partiamo da un principio basilare: al lavoro, a casa con gli amici, i figli o i parenti, le critiche non servono mai.
Qualche settimana fa mi è accaduto uno spiacevole episodio, erano circa le 9:30 del mattino e ed ero su un autobus per andare a un appuntamento, avevo uno zaino molto pesante con diverso materiale e dalla mia la fortuna di trovare un posto libero. Nel frattempo ricevo una telefonata da un cliente e non mi accorgo che intorno a me si crea un gruppetto di persone di circa 60-65 anni che iniziano a discutere fra loro
È dura da ammettere: ma quanto l’opinione degli altri ci condiziona la vita? Capita spesso di sentirsi giudicati dagli altri e altrettanto spesso vorremmo liberarci da questa odiosa sensazione, ma noi quante volte con le nostre frasi, i nostri atteggiamenti e le nostre parole facciamo sentire giudicate le persone che abbiamo accanto? Siamo certi di non cadere a nostra volta in questi comportamenti, causando la sofferenza o anche solo rovinando la giornata ai nostri cari, agli amici o ai colleghi?
"Forse è colpa dello stress… Somatizzi le tensioni… Sei troppo giovane per avere questi problemi… Se fossi in te, non mi farei più toccare… Non è che ti piace questa condizione…? Vai a Lourdes…Poverina… Se fosse così doloroso come dici, non lavoreresti… Tu sei matta a farti operare ancora…" Queste sono solo alcune delle frasi che mi sono sentita ripetere per anni e, a dirla tutta, ancora adesso non sempre smettono di farsi sentire. Tranquilli, non sento le voci. Facciamo però un passo indietro.
Le scuse sono la nostra prima forma di autosabotaggio. Chi più chi meno, ci siamo misurati tutti con queste amiche/nemiche. Eh già perché all’inizio si manifestano come care amiche, un po’ come il grillo parlante che ci vuole salvare dal prendere decisioni assurde e pericolose; salvo poi trasformarsi in acerrime nemiche per la nostra felicità. Non pensate di esserne immuni o di associarle solo a comportamenti negativi
Scoperchiamento è la parola che guida questo momento. E ho scelto di proposito una parola dura, che suona male, ma rende molto l’idea. Scrivere i testi di questo sito, fare le fotografie, sceglierne la grafica sono state tappe di un viaggio emozionante. Per diverse vicissitudini, che vi racconterò in un altro momento, il mio sito ha tardato ad andare online, ma di fatto l’ho elaborato in una notte. Un po’ perché sono un animaletto notturno, un po’ perché la mia creatività fluisce così: all’improvviso. E all’improvviso devo cavalcarla, altrimenti si offende e mi abbandona. E così ho fatto; ho scritto i testi di getto senza censure, non perché sia brava o veloce o perché mi venga naturale, semplicemente perché in quell’occasione mi sono concessa il permesso di dare voce alla mia identità.