Controllo e perfezionismo: dove ci portano?

Controllo e perfezionismo: dove ci portano?

Controllo e perfezionismo: quali i danni collaterali?

Sono sempre stata una “maniaca” del controllo e il lavoro che ho svolto per oltre quindici anni in parte nutriva questo bisogno e in parte alimentava questa schiavitù.

“Pianifica, organizza, verifica e ri-verifica”: era il mio mantra. Ricordo il periodo in cui il mio socio mi chiamava post-it, memorizzavo ogni dettaglio, anche le sue deadline e gli mandavo email con oggetto: memo. Fortuna che mi vuole molto bene e riusciva a trovarlo anche divertente!

Non è tutto, come potete immaginare questo controllo andava a braccetto con un perfezionismo forsennato. In redazione in certi momenti facevo impazzire i grafici: notavo testi millimetricamente non allineati, cosa quasi impercettibile all’occhio umano (soprattutto in un file in bassa risoluzione!), controllavo preventivi più e più volte, rifacevo il pdf di una presentazione anche solo se c’era un doppio spazio e talvolta rileggevo le email anche dopo averle inviate…

Insomma ero sfiancante, lo ammetto. Con me stessa in primis, con gli altri poi. Convivere con “quella” me stessa era decisamente faticoso, eppure era un bisogno, non potevo accettare errori, non potevo fare a meno di quel controllo e di quella ricerca di perfezione.

Tutta questione di coraggio

Perfezionismo e controllo mi tenevano in scacco, le conseguenze negative erano numerose e sono certa che se lo sei anche tu, ti ritroverai nelle mie parole.

Ero eternamente insoddisfatta, severissima nei miei confronti, delegavo con riserva e, quando lo facevo, davo indicazioni così precise da non lasciare margine di azione o di creatività al mio interlocutore, provavo fastidio davanti all’approssimazione altrui, incassavo negativamente le critiche e non mi fermavo mai, se non quando avevo finito.

Una professoressa del liceo per anni continuò a ripetere a mia madre una frase che mi fece soffrire tantissimo: “Sua figlia non è umile, non accetta di sbagliare e di fallire!”. Io all’epoca ero solo un’adolescente che notava due cose: tenevo tantissimo alla performance al punto da imparare tantissime cose e, allo stesso tempo, ero sempre disponibile con amici e compagni in difficolta. Un binomio che ai miei occhi non mostrava alcun nesso tra l’umiltà e il desiderio di fare bene, di raggiungere traguardi ambiziosi. Pensavo che proprio perché non ero abbastanza brava, cercavo di esserlo di più e in questo risiedeva la mia umiltà.

Mi sbagliavo. E mi sbagliavo tantissimo.

Con il tempo ho capito che quell’umiltà di cui parlava la mia professoressa è racchiusa nel coraggio di essere vulnerabile. Di accettare che la perfezione non esiste e cercare con tutte le nostre forze di raggiungerla significa tendere verso un obiettivo impossibile, correre per una gara estenuante, senza fine.

Quell’umiltà è racchiusa nel coraggio di essere autentica, accettare ciò che sono, chiedere aiuto, vivere la vita che desidero e abbracciare la certezza di non piacere a tutti.

Come ne sono uscita? Ho smesso di vivere in gabbia, semplicemente perché la gabbia non esisteva, era solo nella mia testa e ho iniziato a rischiare.

Com’è andata in futuro?

Sempre meglio, ma il 2018 è stato il vero anno della svolta. Ed è andato in modo completamente inaspettato.

“Ognuno di noi ha un talento. Ciò che è raro è seguirlo verso i posti bui in cui ti guida”.

Ecco oggi mi volto e mi accorgo che senza rendermene conto razionalmente ho fatto proprio questo: ho messo da parte tutti gli “attrezzi del mestiere” per pianificare al meglio, ho seguito il mio talento, nei luoghi più strani e impensati, ho imparato cose nuove su di me, sono caduta e mi sono rialzata, ho chiesto e ascoltato consigli, ho costruito e sto costruendo molto e lo sto facendo grazie soprattutto ai miei errori. È stato un viaggio necessario, ora posso ricominciare a pianificare, ma in modo diverso.

 

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