Che cosa me ne faccio del dolore?

Che cosa me ne faccio del dolore?

Che cosa me ne faccio del dolore?

C’era una volta l’edonismo e c’è oggi un consumismo frenetico che ci porta a perseguire il benessere, il piacere e l’eterna giovinezza trascinandoci in un vortice fatto di frenesia e adrenalina… in cui la parola dolore non può essere contemplata.

Chi soffre è uno sfigato. Per assurdo il lamentoso è quasi più accettato. I social media, le copertine patinate ci rimandano un mondo in cui tutto è bello, tutto è perfetto in cui le vite non contemplano gli alti e i bassi, e, quando in quelle immagini non ci ritroviamo, ci sentiamo schiacciati e angosciati, come se non fossimo all’altezza. Escogitiamo modi infiniti per evitare il dolore, eppure il dolore è naturale, sia esso fisico o emotivo. Non possiamo prescindere da esso. Anzi più cerchiamo di evitarlo, meno lo ascoltiamo più torna nella nostra vita, si traveste in altro modo e bussa alla nostra porta.

Una cosa è certa: il dolore c’è, esiste possiamo solo scegliere se estirparlo o accoglierlo.

Vogliamo il piacere, ma è nel dolore che ci conosciamo.

Qualche settimana fa parlavo della necessità di vivere la sofferenza in maniera immersiva, che cosa significa esattamente?

Gli anestetici o gli anti dolorifici non servono a nulla. Sì, è vero possono calmare la fase acuta, ma, se la causa è sempre lì, i sintomi torneranno più forti che mai e a intervalli sempre più ravvicinati. Un po’ come quando ci chiediamo perché continuiamo a passare da una relazione sbagliata a un’altra o da un posto di lavoro tossico a un altro e pur volendo la felicità ci infiliamo nei tunnel della tristezza.

Impariamo fin da piccoli a scappare dal dolore e dalla tristezza e non impariamo ad ascoltarli. L’unica cosa che impariamo è che dobbiamo smettere di piangere o di soffrire perché le nostre lacrime non sono socialmente accettabili. E ci dimentichiamo quanto invece sia cruciale l’accoglimento della sofferenza: non possiamo essere compassionevoli nei confronti degli altri se noi per primi non accogliamo la nostra di sofferenza.

Il primo passo è smettere di demonizzare dolore e ricondurlo, anche dal punto di vista semantico, in un luogo migliore. Il dolore è un segnale che la nostra anima, la nostra mente o il nostro corpo ci mandano quando qualcosa non funziona.

Provate a immaginare quanto sarebbe pericoloso se non sentissimo bruciare appoggiando una mano su una piastra rovente… ecco la stessa cosa vale per i sentimenti e le emozioni. Il dolore è come un alert che ci spinge a cambiare, un po’ come la spia dell’olio in auto.

Mi piace pensare al dolore come all’input capace di indurci al cambiamento. Ci insegna che dobbiamo fare qualcosa di diverso, ci spinge a prendere delle decisioni.

È vero il dolore è brutale, ma utile (talvolta).

L’altra faccia del dolore: quello inutile

Perché dico talvolta? Perché tante volte ci auto sabotiamo: amiamo persone che ci fanno soffrire, lavoriamo in posti che detestiamo e viviamo in città che in cui non ci sentiamo a casa. Lo facciamo semplicemente perché sono situazioni che ci offrono un dolore “conosciuto” e quindi più facile e “comodo” da affrontare.

Siamo poco propensi ad affrontare un’eventuale nuova sofferenza e spesso ci diciamo che è meglio “non lasciare la vecchia strada per la nuova”. E così facendo non corriamo neanche il rischio di giungere in un posto nuovo. Un posto che ci permetta di essere noi stessi.

Ma senza la sofferenza non è possibile né una vita autentica, né la felicità stessa. E per uscire dal dolore tocca decidere di farlo.

 

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