Qual è il senso della sofferenza?

Qual è il senso della sofferenza?

Qual è il senso della sofferenza?

Basta una sola frazione di secondo e tutto cambia. In una sola frazione di secondo scende la goccia, l’ultima, quella che fa traboccare il vaso…

E smuove tutto il substrato, poi nulla è più come prima.

Io, tu, noi, nessuno è più come prima. Quello che ti circonda gli oggetti, i dettagli quelli sì invece, quelli restano immutati, lì immobili, come se la goccia non li avesse colpiti. Un minuto prima del litigio finale organizzavi la spesa, pianificavi la cena, sistemavi i fiori, piegavi il bucato. Il secondo dopo quello spazio non è più lo spazio condiviso, il vostro spazio, ma un luogo a te sconosciuto che per qualche strano motivo in parte lo vuoi trasformare, in parte non lo vuoi toccare, come la scena di un crimine… così che possa regalarti ancora qualcosa… magari la soluzione, oppure suggerirti pensieri o ricordarti profumi.

E ti dibatti tra il desiderio di cancellare tutto in un istante e l’obbligo di stare in quel momento di sofferenza… ma purtroppo il tasto “avanti” non ce l’abbiamo, non ne siamo dotati. Quel tasto che davanti ai vecchi film ci permette di scegliere di non rivivere le scene più brutte, perché vedere Maverick soffrire per la perdita di Bruce non è accettabile.

Ma nella vita non è così. Qui tocca stare. Qui tocca fare i conti con i giorni a venire. Avete discusso e litigato tante volte, ma stavolta è diverso. Stavolta si è al capolinea. Non è una delle tante. Questa è quella della svolta, quella che impone il cambiamento che arriva dirompente e porta con sé il previsto, il temuto ma anche una dose d’inaspettato.

Che cosa puoi imparare?

La fine di una relazione non è la cosa peggiore che possa accaderci, ma in quel momento si ferma tutto. Letteralmente ci crolla il mondo addosso. Il cervello smette di essere lucido, la concentrazione ci sfugge di mano e in quella stessa concentrazione cerchiamo rifugio per non pensare, per non soffrire, per smettere di rimuginare su quel fallimento, su quella rottura. Magari l’ennesima. C’è chi perde l’appetito, c’è chi nel cibo trova rifugio, c’è chi smette di dormire e chi riposa a singhiozzo disturbato da mille incubi. Le emozioni che viviamo in quei momenti spesso sono incontrollabili e sono fatte di estremi, picchi che vanno in un senso o in un altro.

Una cosa è certa: anche questa è una fase necessaria. Darsi l’opportunità di vivere il dolore del distacco, senza farsi bloccare dalla paura di stare male o pensare che ciò non sia giusto, è un processo duro, ma chiave nel percorso di definizione della nostra identità. Ci permette di capire come funzioniamo e come reagiamo davanti alle chiusure: siamo attivi? Siamo passivi? Siamo decisionisti? Siamo pavidi? Siamo riflessivi o reattivi? Siamo orgogliosi o emotivi? Riusciamo a dire ciò che desideriamo o ci blocchiamo? Affrontiamo il momento o lo neghiamo cercando di fuggire e minimizzare?

Per condurci a una matura presa di coscienza, la sofferenza va prima attraversata con coraggio e “volontà immersiva”.

D’altra parte le responsabilità sono condivise ma tocca guardarle dritte negli occhi per andare avanti.  E al di là dei singoli fatti contingenti, le motivazioni che portano alla fine partono sempre da lontano e si inerpicano nelle anse della quotidianità, talvolta senza lasciarci scampo.

Vero, era solo una goccia. O forse una grande opportunità per aggiustare il tiro nelle nostre relazioni future e scoprire chi siamo, quali sono i nostri bisogni, se e come abbiamo tracciato i nostri confini e quanto ce ne siamo presi cura.

 

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