Noi quanto giudichiamo gli altri?

Noi quanto giudichiamo gli altri?

Noi quanto giudichiamo gli altri?

È dura da ammettere: ma quanto l’opinione degli altri ci condiziona la vita? Capita spesso di sentirsi giudicati dagli altri e altrettanto spesso vorremmo liberarci da questa odiosa sensazione, ma noi quante volte con le nostre frasi, i nostri atteggiamenti e le nostre parole facciamo sentire giudicate le persone che abbiamo accanto? Siamo certi di non cadere a nostra volta in questi comportamenti, causando la sofferenza o anche solo rovinando la giornata ai nostri cari, agli amici o ai colleghi?

Il fulcro della questione,  come teorizza Rosenberg nel suo “Le parole sono finestre, (oppure muri)”, sta tutto nel nostro grado di empatia. Partiamo con una definizione: l’empatia è la capacità di comprendere a pieno lo stato d'animo altrui, sia che si tratti di gioia, sia che si tratti di dolore. Il significato etimologico del termine è, infatti, "sentire dentro”, detto in altre parole essere in grado di "mettersi nei panni dell'altro", una capacità che di per sé fa parte dell'esperienza umana e animale.

Ciò significa che ogni volta che per diverse ragioni il nostro grado di empatia cala, si crea un terreno fertile per il giudizio.

Che cosa significa comunicare empaticamente

Alcuni nostri modi di comunicare, senza che ce ne rendiamo conto, ci allontanano dal nostro stato naturale di empatia e anzi ci avvicinano a una forma di comunicazione, più o meno violenta, verso di noi e verso gli altri. Marshall B. Rosenberg si rifà in particolare a cinque forme di comunicazione che “alienano dalla vita”, vediamole nel dettaglio.

GIUDIZI MORALISTICI: partiamo con qualche frase tipica: “Idiota!” urlato a chi fa una semplice manovra che in auto ci ostacola; “il tuo problema è che sei egoista”; “Sei pigro!”; “La tua famiglia è piena di pregiudizi”; o peggio in una dinamica di coppia se la persona che abbiamo accanto ci chiede più affetto di quanto stiamo dando l’accusiamo di essere “troppo esigente”, mentre se siamo noi a richiederne l’altro diventa “insensibile e distaccato”. Ti ci ritrovi? Come vedi in questa categoria rientrano tutte quelle forme di pensiero che implicano il torto o la cattiveria di quanti non agiscono secondo il “nostro” modello valoriale, per quanto in realtà siano solo “nostri” nefasti tentativi di manifestare i “nostri” valori o i “nostri” bisogni. Ogni volta che parliamo questo linguaggio pensiamo e comunichiamo dicendo cosa non funziona negli altri o in noi stessi. E quindi come se ne esce? Mettendo a tacere il giudizio moralistico e verbalizzando il nostro bisogno. E quindi anziché dire: “la violenza è cattiva”, potremmo dire: “temo la violenza per la risoluzione dei conflitti, apprezzo l’utilizzo di altri mezzi”.

FARE PARAGONI: tutte le volte che ci paragoniamo agli altri o parliamo al nostro interlocutore facendo un paragone, esprimiamo un giudizio, blocchiamo l’empatia e creiamo le condizioni ideali per l’infelicità nostra e degli altri.

NEGARE LE PROPRIE RESPONSABILITÀ: avviene più spesso di quello che pensiamo… Ebbene sì, perché rientrano in questa categoria anche tutte le espressioni quali “si deve fare”, “mi fa sentire in colpa”. In sostanza neghiamo la nostra responsabilità ogni volta che attribuiamo le nostre azioni a forze vaghe e impersonali: “ho studiato perché dovevo”; alla nostra condizione, oppure a una diagnosi o alla storia personale: “bevo perché sono alcolizzato”; alle azioni altrui: “ho picchiato mio figlio perché mi ha risposto male”; all’autorità: “ho mentito perché me l’ha detto il capo”; al gruppo: “ho iniziato a fumare perché lo facevano i miei amici”; alle istituzioni: “non ti posso far entrare perché questa è la nostra politica”; ai ruoli: “detesto cucinare, ma lo faccio perché sono una moglie e una madre” e infine agli impulsi incontrollabili: “sono stata sopraffatta dalla voglia di dolci”. Possiamo sempre sostituire il linguaggio che implica una mancanza di scelta con un linguaggio che ci metta in condizione di riconoscere dove sta la nostra scelta. Perché anche nell’eseguire un compito o un comando c’è sempre una scelta, la scelta per esempio di farlo per non perdere il lavoro.

COMUNICARE I PROPRI DESIDERI COME FOSSERO PRETESE: non possiamo far fare qualcosa a qualcuno solo per soddisfare la nostra volontà. A quel punto quel qualcuno avrà solo due possibilità: ribellarsi o soccombere. Qui l’empatia crolla e chi “subisce” la pretesa si sentirà manipolato e giudicato negativamente, qualora dovesse decidere di dirci di no.

CHI MERITA CHE COSA: merita è la parola chiave. Quante volte abbiamo usato espressioni come “si merita di essere punito per tutto quello che ha fatto”. Questa frase si porta dietro una valutazione totale della persona e presuppone la cattiveria invocando una punizione affinché la persona si penta e cambi atteggiamento. È meglio che le persone cambino per evitare una punizione o perché capiscano realmente di poter beneficiare di quel cambiamento?

La maggior parte di noi è cresciuta a pane e paragoni, etichette, giudizi perdendo per strada la capacità di diventare consapevoli delle proprie sensazioni, delle emozioni e del capire di cosa abbiamo bisogno. E quindi?

Come dire ciò che desideriamo senza suscitare ostilità?

Ne parliamo nel prossimo post.

 

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